È possibile essere felici? Come si raggiunge la felicità? E che connessione ha con la salute?
Cosa significa essere in salute? Come la comunità contribuisce al proprio essere felici e in salute?
E come le risposte che diamo a queste domande sono frutto di un’elaborazione culturale, socialmente costruita, o in qualche modo rasentano la verità… il noumeno kantiano, l’essenza non conoscibile?
Parlando di costrutti di tale natura, vale la pena innanzitutto soffermarsi sul paradigma epistemologico che ci anima, ovvero cosa conosciamo e come costruiamo le nostre conoscenze. L’apprendimento è decostruzione, nulla si può apprendere senza prima descostruire ciò che già sappiamo. D’altra parte, è anche vero che la ragione scorge solo ciò che essa produce, secondo un proprio disegno, secondo leggi stabili. La realtà è il frutto di una costruzione sociale e culturale, ma esiste una realtà, un non conosciuto, quello che Kantianamente definiremmo Noumeno, a cui non possiamo accedere?
Parte della realtà non conosciuta, ovvero non visibile e tangibile, è l’energia psichica, ciò che serve al nostro funzionamento, ovvero alla nostra sopravvivenza psico-fisica, ed è quell’energia universale, vitale, che scorre tra gli esseri viventi, trasmessa reciprocamente il più delle volte a livello inconsapevole.
Secondo Platone, il ricercare e l’apprendere nella loro interezza non sono che un riconoscere, il risultato di una reminiscenza di quelle idee dell’Iperuranio che da sempre formano l’anima umana. L’anima platonica che scorge soltanto ciò che essa produce, è un concetto che sembra richiamarci ad una legge, la legge di attrazione oggi così conosciuta anche se forse fondamentalmente poco compresa.
Cosa significa che noi ci attraiamo ciò che succede? Significa che noi riconosciamo, apprendiamo, la nostra attenzione è selettivamente focalizzata, così come le nostre altre facoltà cognitive, memoria, percezione, su quanto da noi prodotto, creato, realizzato, non solo ma che le cose accadono perché in qualche modo ce le prefiguriamo, ne siamo psichicamente ed energeticamente attratti, anche se non sempre consapevolmente. Ovvero noi siamo i creatori della nostra realtà, perché il significato, l’interpretazione che ne diamo è quella che poi diventa per noi realtà, ne diventa perché è generatrice di eventi, fatti, che sono con essa in armonia, che confermano quel principio di coerenza che è alla base della nostra organizzazione psichica.
Cosa significa che conoscere è riconoscere? Conoscere la natura equivale anche a conoscere noi stessi, che della natura siamo parte, ovvero più conosciamo la natura esterna, più ci riconosciamo, nel senso che ne scopriamo leggi che sono le nostre, poiché non c’è una separazione netta tra sé e il mondo esterno, e questa sensazione, intuizione o insight che in alcuni momenti solo ci è dato forse di provare è alla base di quella armonia, di quel benessere a cui auspichiamo.
L’armonia alla base del benessere psicofisico, in cui si ha percezione di unità è tutt’altro dall’identificazione adesiva che è alla base di talune psicopatologie, come le psicosi, in cui il mondo esterno è completamente invaso dal mondo interno, diminuiscono i gradi di libertà, le possibilità dell’esistere, e di costruire differenti versioni del reale, in cui poter esercitare la propria umanità.
La realtà è la più grande di tutte le illusioni, scrive Borges, è simile a quella di un mago che si incanti al punto di prendere le sue fantasmagorie per apparizioni autonome.
Gli uomini nel buio della caverna, nel mito di Platone, vedranno solo le ombre di sé e degli altri proiettate dalla luce del fuoco sulle pareti. Prendere per vere le proprie fantasmagorie diventa spesso causa di conflitti e lacerazioni. Ognuno crede che siano vere le proprie fantasmagorie, le ombre proiettate sulle pareti della caverna e in un certo senso lo sono, come è vera la realtà che ognuno di noi si costruisce e sente che è tale, perché in base a ciò che sente orienta le proprie azioni. Fantasmagorie che spesso sono condivise con un gruppo, un contesto culturale a cui si appartiene, e che quando si incontrano con l’alterità, con altre fantasmagorie, a quel punto sono costrette a riconoscere i loro limiti, in un certo senso a ridimensionarsi, a rimaneggiarsi verso una visione più intersoggettiva, perché frutto dell’elaborazione di più soggetti, ognuno con la sua individualità.
Esiste una visione intersoggettiva o può anche esistere una visione oggettiva, la realtà è una costruzione intersoggettiva o esiste in sé?
Uscire dalla caverna ed incontrare gli altri, significa rinunciare alle fantasmagorie proprie ed altrui, e avvicinarsi all’immagine reale e non proiettata degli altri e di sé… Ma esiste poi un’immagine reale, non mediata?
Pirrone affermava, ad esempio, che nulla esiste secondo verità ma che gli uomini fanno tutto per convenzione e per abitudine. L’indifferenza rispetto alla mutevolezza delle cose umane, la fedeltà alla propria natura umana, la sospensione del giudizio sono i rimedi suggeriti dal filosofo per avvicinarsi alla felicità.
Riconoscere che tutto cambia, ad eccezione di chi osserva, della coscienza di sé che in qualche modo resta il perno e l’unica realtà esistente in sè. Chi osserva i cambiamenti?
Il soggetto che sente, si sente, vede le emozioni e i pensieri scorrere, sceglie se identificarsi con qualcuno di essi o semplicemente lasciarli scorrere come nuvole che passano in un cielo. Il punto fermo sembra essere proprio l’osservatore che nel momento presente è.
Vivere ogni giorno come se fosse un eterno momento presente, come se fosse l’ultimo, secondo la massima di Epicuro: ”Convinciti che ogni giorno che si leverà per te sarà l’ultimo, con gratitudine lo coglierai e ne apprezzerai il valore”. Oppure, come affermava Lucrezio, come se fosse il primo, con il senso di sorpresa e l’incanto tipico delle prime esperienze, con lo sguardo curioso, entusiasta del bambino, con la sua spiccata vitalità e ingenuità.
La verità non esiste se non nell’osservatore che ne afferma di volta in volta l’esistenza nella sua mutevolezza. E la felicità è forse nell’accettazione di tale principio di trasformazione, della continua mutevolezza con quel senso di gratitudine alla vita, di scoperta della bellezza con un atteggiamento di costante apertura, con la mente insatura e con il corpo sgombro di tutto ciò che può ingombrarlo in modo rigido e condizionante.
Il male, l’infelicità secondo questa filosofia, è il frutto dell’ignoranza, del saturarsi di verità che non esistono se non come proiezioni di ombre sulle pareti. Perché quando l’uomo conosce se stesso ed in qualche modo è ricercatore, ridimensiona i propri “crucci”, i suoi pensieri non vengono disturbati dalla ricerca di un fine per ciò che non ha altro fine che la propria esistenza.
Questo forse è il valore della meditazione, affrancarsi dalla propria dimensione egoica, ridimensionare i propri dolori, le proprie preoccupazioni, desideri e aspettative, giudizi e non sentirsi più al centro dell’universo, ma una parte in armonia con il tutto, ed il tutto stesso. Per affrancarsi, occorre però prima riconoscere, offrire accoglienza a tutto ciò che c’è nel momento presente, al potere e all’impeto delle emozioni, ai sentimenti, agli umori, ai pensieri, e senza giudizio osservarli o lasciarli esprimere, quando è necessario. Non può esistere trascendenza, senza prima immanenza, senza restituire piena dignità al proprio corpo, alle sue sensazioni fisiche ed energetiche. Una volta che si è guardato dentro, che lo sguardo si è posato sul proprio corpo e la percezione si è allargata alle varie parti del nostro corpo, anche lo sguardo dall’alto appare più nitido.
Lo sguardo dall’alto, il sentimento cosmico sono elementi imprescindibili di questa filosofia in cui, come diceva Hadot, ciò che prevale allora è lo stupore che la vita stessa esista. Ma ognuno di questo farà la sua personale ed unica esperienza.
Dott.ssa Francesca Scafuto – Psicoterapeuta, dottore di ricerca in psicologia della salute, insegnante, vicepresidente Fondazione Rebecca